Rallentare per vincere?
Ciccio è proprio un appassionato di corse. Non solo si allena tutte le mattine, ma ogni volta che c'è qualche gara, lui è sempre in prima fila ad assistere, sia di persona che per televisione. E anche se il divertimento è maggiore allo stadio, ieri pomeriggio Ciccio rimase così impressionato da un programma televisivo, che... corse subito da me per chiedere spiegazioni.
Stavano infatti trasmettendo la gara di corsa più rapida dell'atletica leggera, ossia i 100 metri piani, quella che termina anche in meno di 10 secondi, e Ciccio si era facilmente accorto (dalla moviola) che tutti i corridori non finivano la loro corsa con uno “sprint” finale, come ci si sarebbe aspettato, ma piuttosto rallentando un po'... La ovvia spiegazione che si diede fu che ciò avveniva perché gli atleti acceleravano troppo fortemente all'inizio della corsa, così che alla fine arrivavano esausti.
Il commento del giornalista, però, fu spiazzante: dal punto di vista fisiologico, era proprio quello il modo migliore per correre i 100 metri! I fisiologi sanno bene, infatti, che tutti gli esercizi di corsa che durano meno di 3 minuti devono essere effettuati con una forte accelerazione iniziale e una decelerazione finale, mentre le corse più lunghe finiscono con lo sprint finale. “Perché?” fu la ovvia richiesta di Ciccio...
Innanzitutto ‒ risposi io ‒ bisogna prima quantificare il problema: non tutte le distanze, infatti, sono corse alla stessa maniera. Per distanze fino a 400m, l'ultima parte della corsa vede un rallentamento dell'atleta. Ad esempio, ai Campionati Mondiali di Atletica Leggera 2011 i tempi parziali del vincitore dei 100 metri maschili, Yohan Blake, sono quelli riportati nella tabella qui sotto: i primi 10m vengono percorsi in 1.87 secondi, i secondi 10m in 1.02s, i terzi 10m in 0.93s, ecc. Come si può vedere facilmente, a 70m si ha un rallentamento, che poi prosegue fino alla fine: nei primi 70m l'atleta accelera, per poi rallentare negli ultimi 30m.
Invece, per distanze maggiori di 1500m, ad una prima fase di accelerazione iniziale segue una seconda fase con una velocità pressoché costante e, poi, una accelerazione finale. La corsa degli 800m è un caso intermedio tra i due. Cosa se ne deduce? Evidentemente, il corpo umano non ottimizza le proprie risorse in base alla distanza percorsa sempre allo stesso modo.
Per capirci qualcosa, occorre un modello fisico del problema in esame che riesca a descrivere l'evoluzione nel tempo della velocità dell'atleta. La sua variazione risulterà dagli effetti contrastanti di una forza propulsiva dell'atleta che cambia nel tempo, man mano che la gara procede, e da una forza resistiva fatta sull'atleta dall'ambiente circostante, che evidentemente aumenterà all'aumentare della velocità. Naturalmente la forza propulsiva sarà controllata dal corridore, ma certamente non potrà superare un dato valore massimo. Infatti, un ingrediente fondamentale del modello deve essere l'energia a disposizione dell'atleta per compiere la sua corsa. Questa viene prodotta nell'uomo sostanzialmente da due meccanismi: uno aerobico che avviene consumando l'ossigeno respirato, ed uno anaerobico che produce energia senza consumo di ossigeno, ma che utilizza i depositi di carboidrati (glicogeno) e la produzione di acido lattico.
L'energia anaerobica ha una capacità finita, e può pensarsi come “contenuta” in un contenitore di data altezza e sezione che, col passare del tempo, si svuota sempre più. Invece, in un modello molto semplice, l'energia aerobica può considerarsi di capacità infinita, che fluisce più o meno velocemente nel contenitore anaerobico man mano che il livello di quest'ultimo si abbassa. Essa naturalmente dipende dall'intensità dello sforzo: per farsi un'idea, in media un litro di ossigeno fornisce l'energia necessaria per sollevare di un metro in verticale un'automobile di circa 2000kg.
Dati gli ingredienti fondamentali, occorre allora stabilire il metodo con cui procedere nel calcolo del modello, ossia: quale è il meccanismo che prevede le caratteristiche osservate durante una corsa? Una ricercatrice francese ha recentemente scoperto che tale meccanismo è concettualmente molto semplice, ma da solo basta per rendere conto di quanto osservato: durante una corsa il corpo umano tende sempre a minimizzare il tempo che occorre per coprire la data distanza...
Si scopre, così, che quando la durata dell'esercizio fisico è inferiore ai 2 minuti, il massimo valore possibile di consumo di ossigeno non viene raggiunto, per cui dopo poco l'atleta non riesce a mantenere la massima forza propulsiva, e la velocità diminuisce. Invece, se la corsa dura più di 3 minuti, il massimo consumo di ossigeno viene raggiunto e, dopo la precedente diminuzione di velocità, questa nuovamente aumenta. Dunque, in una corsa che dura poco tempo, la migliore prestazione si ottiene proprio partendo con la massima forza possibile, e poi diminuendo la forza propulsiva, dato che il corridore non riesce a mantenere quel valore massimo per l'intera durata della corsa. La diminuzione di forza propulsiva porta naturalmente ad una diminuzione di velocità. Il “trucco” è, allora, da un lato quello di incrementare la quantità di ossigeno a disposizione e, dall'altro, quello di essere sufficientemente abili a variare rapidamente la forza propulsiva. Questo spiega, per esempio, perché gli atleti utilizzano spesso un interval training durante il loro allenamento, ossia un breve periodo di lavoro seguito da riposo.
Fu a questo punto che, colta la palla al balzo, chiesi a Ciccio di concedere anche a me il meritato riposo... E lui non se lo fece dire due volte: corse subito a casa per trovare i dati sui suoi atleti preferiti per vedere se il modello che gli avevo spiegato ci vedeva giusto!
S. Esposito, fisico